Lungo i percorsi di una mostra d’arte è dato trovare degli spettatori e dei contemplanti. Gli spettatori, al giorno d’oggi sempre più volenterosi, curiosi e numerosi, assidui ai clamorosi bandi d’arte, accorrono alle esposizioni prestigiose. Vi sono poi i contemplanti, molto meno numerosi, non di necessità professionalmente competenti, che sostano e ripassano davanti alle opere di cui sono forse da lungo tempo innamorati, che hanno atteso da tempo, religiosamente partecipi come al cospetto di cerimonia mistica.
Lungo i percorsi di una mostra d’arte è dato trovare degli spettatori e dei contemplanti. Gli spettatori, al giorno d’oggi sempre più volenterosi, curiosi e numerosi, assidui ai clamorosi bandi d’arte, accorrono alle esposizioni prestigiose. Vi sono poi i contemplanti, molto meno numerosi, non di necessità professionalmente competenti, che sostano e ripassano davanti alle opere di cui sono forse da lungo tempo innamorati, che hanno atteso da tempo, religiosamente partecipi come al cospetto di cerimonia mistica.
In modo correlato, bisognerà pensare a una duplice maniera di configurarsi delle opere agli occhi degli astanti. Duplice e forse in se stessa intimamente divergente. Là dove per esempio compaiano armi ed armati, qualcuno coglierà pace e amicizia dove altri avrà visto tumulto e lotta. Questo è proprio il caso delle opere di Luisa Del Campana – una fantasmagoria concentrata e lenta di figure e misteri.
Cosa dire della sua predilezione per figure e misteri medievali, della sua ispirazione a una letteratura graalica? Lei ci esorta a non guardare secondo gli occhi fisici. Gli occhi fisici vedono cavalieri con i loro destrieri ed equipaggiamenti, pronti a vibrare colpi verso un avversario invisibile o con rara dignità imbracciando i loro stendardi in nobile e a un tempo enigmatica evidenza. Colpisce nel movimento l’estrema compostezza, la consapevolezza di sé: l’immobile insistere in un proprio sapere segreto. Il paesaggio intorno è fatto di emblemi e schemi colorati, di allusioni che rafforzano intenzione e concentrazione del protagonista. Si rende sensibile un’intima contraddizione tra il guerresco equipaggiamento, che segnala una vicina impresa cui è d’uopo muovere, e l’attrazione da parte di un altro e di un altrove fuori campo che chiama e che non ha il suo limite o fine in forze e strumenti concreti; e questo crea l’antagonismo tra movimento e immobilità: ciò che è immobile è pieno di tensione, e ciò che si muove e comanda il movimento è grandiosamente immoto. L’altro, invisibile, muove le figure e il loro linguaggio, ma questo ne é pure messo in sospensione e talora fermato. Strano destino dell’espressività umana, di esprimere di più nel punto che viene bloccata.
Mentre noi interroghiamo le composizioni che sono altrettanti enigmi e messaggi riposti, ne siamo interrogati. Occorre dunque attivare la vista interiore per comprendere e rispondere, tanto più che l’artista attinge a fonti di alchimia spirituale, in parte nota ma pur sempre munita di volute segrete. Significativa è la stretta relazione tra viventi e materie, anche attraverso le estensioni e le vibrazioni del colore: gli uni e le altre animati! E però l’animazione delle fattezze umane non è data nei singoli tratti, che sono per lo più velati, a indicare che l’espressività attinge a sorgenti remote. L’organo e strumento del vedere è nell’uomo occultato o attenuato a favore della sua profondità e interiorità. Quasi soltanto la Donna, Madonna stellare e cosmica, ha i tratti del volto disegnati e distinti, lo sguardo semichiuso aperto sulle creature, le braccia raccolte intorno al grembo gravido a protezione e insieme disvelamento della Creatura portentosa che sempre sta per nascere, e non nata una volta per tutte come le creature meramente animali.
Le gigantesche talora proporzioni riescono, a chi sa vedere, prossime e perfino tenere e gentili come fossero piccole, nonché di una estranea familiarità e commozione. V’è un estraneo che felicemente ci estranea dal vicino, ci sradica, se lo lasciamo operare, e riradica lontano. Una familiarità medievale? Ciascuno di noi ha una propria famiglia nel passato, in uno o altro secolo, in uno o altro complesso storico: il riconoscerla è, credo, la più grande ricchezza e anche il più grande ancoramento per l’individuo in balìa di ogni infido presente, che ci contamina con la sua ristretta affettività. In proposito, noterei come le opere di Luisa Del Campana siano immuni da variazioni sentimentali, mirando a una affettività pura da intemperie – come stiamo per vedere.
Cosa dice il ricorso alla familiarità medievale che certamente è dell’artista che stiamo considerando? Cosa dicono le grandi misure e soprattutto la serenità quasi inumana delle sue immagini? Anzitutto che siamo tutti signori, nell’oltre noi stessi che è in noi stessi, e nello spirito che è nostra carne cosmica forse tutti re. E poi, cosa essenziale, che le azioni, i combattimenti, le armi sono, guardati con occhio interiore, meditazioni. Processi d’anima o punti e riflessi che invitano a sospendere e ad aprire il cammino del pensiero, il quale è a guisa d’onda che avanza e retrocede; e che, avanzando e retrocedendo, mescola acque e luci ed energie e se ne nutre e muta divenendo fedele alla propria goccia d’eterno.
Come se la lentezza meditata, misurata, fosse il ritardo necessario a guadagnare il veloce momento del rapimento, del salto incontro alla chiamata e destinazione trascendente.
Ingresso al Tempio è un titolo rivelativo: la forza che vi spira è avvolta su se stessa, prende volto e figura. Il volto di un sacro Ciascuno. Di una vedetta primevamente eroica e primevamente erotica. La meditazione che in modi lentamente solennemente variati è allusa e allegorizzata nelle singole composizioni è ciò che porta la mente contemplante all’ingresso del tempio interiore e trascendente, del proprio intimo fondo.
Anche un invito a cercare tra le cose celate: cercando, si desta nel contemplante pure il desiderio di trovare l’amore, l’amore tra questi volti, drappi e tende: dov’è in quest’opera l’amore?
L’alto e il basso: l’uomo cosmico o l’arcangelo e l’animale: bella la solidarietà tra il cavaliere e il suo cavallo, anticipo della vera natura dell’amore, ignota ai più che vivendo senza di esso lo nominano. Forse che si rivelerà alla fine di questo mondo e non prima? Forse prima non è dato se non a pochi umani. Si riveleranno alla fine gli inizi, l’amore, della creazione?
Se ancora interroghiamo le suggestioni che emanano da queste opere, troviamo una caratteristica fondamentale dell’immaginale medievale: la gentilezza. E questa a me pare sottenderne un’altra, più segreta e intima.
La gentilezza: per il medioevo è una qualità pura alla potenza assoluta, che non ha riscontro con ciò che il mondo borghese intende con questo termine. Leggo nel De Amore di Andrea Cappellano (fine XII. sec.):
Solo la gentilezza dà vera nobiltà e abbagliante bellezza.
Ma dunque cosa sottostà a quest’alta sorgente che è la gentilezza? Certo l’intelletto d’amore, la facoltà umana tanto tesaurizzata da poesia e filosofia medievali, che volge la punta del desiderio verso la nobiltà e la bellezza e che conosce soltanto fin’Amors e fini amanti. Gentile è l’intelligenza sottile dell’amante.
E prende amore in gentilezza loco
dice Guido Guinizzelli, poiché Natura ha fatto insieme amore e gentil cuore e nessuno dei due è qualità parziale od egoista. Dunque, dov’è gentilezza è amore, e viceversa. Sì da potersi comprendere com’essi siano potenti vene formative e nutritive di ingegno artistico e mistico.
Può dirsi fin’Amore ciò verso cui mirano gli occhi velati delle tele di Luisa Del Campana? Direi che proprio qui volgano gli affetti che dicevamo non sentimentali di queste opere. Quando ci si muove, non sporadicamente ma respirandoli, tra gli oggetti della mente i più elevati e ambiziosi è sempre una questione d’amore, d’innamoramento anzi dell’intelletto, che moltiplica la visione di oggetti amorosi anzi che di oggetti bradamente umani – ciò che accade al contemplante medievale fedele d’amore. “Tutti li miei penser parlan d’amore/ e hanno in lor sì gran varietate” dice il poeta della Vita Nuova (XIII).
Credo che i nomi che il linguaggio e la lingua applicano ai concetti medievali di gentilezza, intelletto e amore nonché i nomi che ne traggono siano dalle menti sottili ed esigenti avvertiti come dissomiglianti rispetto alle essenze che designano, approssimanti per difetto. Nelle modalità del suo dipingere Luisa Del Campana ha immesso per così dire la coscienza della distanza di quei concetti e facoltà dal comune sentire. Diciamo a questo punto che il desiderio riposto e ad un tempo espresso dell’artista è l’iniziazione: favorire l’iniziarsi dello spettatore alle armonie alte della vita, a ciò che chiama “l’oro del cuore”, il solo ad avere accesso alle mura che cingono il mistero.
Qui un circolo virtuoso è che l’intelletto d’amore (e l’amore) ha una sua potente e prepotente materialità sottile, o se preferiamo sensualità o astratta carnalità, e per questo esige l’immagine; ma l’immagine a sua volta tende a farci innamorare dell’immateriale, e l’immateriale di nuovo inclina a farci innamorare della fisicità. Oggi l’estetica che si ispira alle neuroscienze cognitive, la neuroestetica, parla di incarnazione e di processi incarnati a proposito delle immagini dell’arte. Questo, di una speciale incarnazione, penso sia pure il circolo o l’ondoso processo che si lascia leggere nelle opere che consideriamo. È a tale stregua che esse risultano esser di più della comune consistenza delle cose ragionevolmente comprensibili, ma anche qualcosa di meno della consistenza di cose alte o supreme cercate, onde il loro movimento e ciò che muovono in noi, in noi contemplanti, mai viene meno.
È proprio per questo che l’immagine visiva diviene sovrana nel complesso ideativo-percettivo in questione. Sovrana nella sua disindividuazione e fantasmica (in senso medievale stilnovistico) figuralità, nella sua levità lungimirante, mirante lontano.
E per inciso un cenno su di un equivoco ed equivocabile termine: modernità. Si suol contrapporre medioevo a modernità a vantaggio di quest’ultima: e lo si fa non solo travisando gli elementi pragmatici e storici insiti nel concetto “medioevo”, ma in specie senza riflettere alla modernità singolare e peculiare dell’età medievale. Se “moderno” significa “originale”, “nuovo”, “caratteristico” come non prima, ebbene si dovrà riconoscere nella “gentilezza” e nell’“intelletto d’amore” l’audace modernità del medioevo. Del resto, come è constatabile una modernità del medioevo, vi sarà pure una medievalità dell’evo moderno, che canta, nell’aggressiva nostra attualità, amore e gentilezza. Per buona nostra sorte… Dobbiamo ancora una volta osservare che questo è il felice caso dell’opera di Luisa Del Campana.
Vive dunque Amore in queste tele, e comanda velatamente il cammino d’iniziazione e l’avventura. Il “cielo turbato dalle ombre del pensiero” è l’inizio del movimento: la geometria supremamente calma, la più essenziale e semplice, è l’ideale e la meta per l’artista e la sua anima (“Nella forma stabile del cubo risiede l’obiettivo raggiunto”). Il contemplante vi si assimila, si fa affine all’oro di sapienza.
Ma era adombrata una lotta finale: le immagini racchiudono l’aspirare infinito loro proprio entro il recinto finito del visibile e della compostezza. V’è esortazione alla lotta per vincere: chi vince e cosa vince? Compare il cavaliere dell’Apocalisse: dunque l’eroe del disvelamento. Il disvelamento decreta la conquista del regno interiore, della signoria e regalità che è la conoscenza, o la gnosi per la quale si è ciò che si conosce: in altri termini la comunione con l’Invisibile.
Rubina Giorgi Filosofo